La storia del Partito socialista italiano dal 1892 al 1926
Donatella Cherubini, Università di Siena
In base alla suddivisione dei ruoli tra i relatori, a me a è affidata la parte iniziale della storia socialista, ovvero dalla nascita del PSLI nel Congresso di Genova del 1892 fino allo scioglimento del partito con le leggi cosiddette fascistissime entrate in vigore tra il 1925 e il 1926. Leggi che segnarono il definitivo avvento del regime fascista, e quindi il crollo dello Stato liberale nato con l’Unità d’Italia nel 1861.
Non è facile sintetizzare in pochi minuti una storia densa di eventi, di protagonisti, di fasi critiche, di conquiste fondamentali, di elementi che si intrecciano costantemente con la storia italiana e con quella europea. Ed è proprio per questo motivo che ho preferito scrivermi alcuni appunti, per cercare di essere il più possibile sintetica senza però dimenticare gli aspetti che ritengo più importanti.
In primo luogo vorrei chiarire alcune scansioni cronologiche che adotterò nella mia trattazione, e che sono appunto rilevanti per la storia italiana, per quella europea, e al loro interno per il Partito socialista.
- Periodo dalla fondazione alla fine dell’800. Sono gli anni della sperimentazione, del primo radicamento, della inaugurazione di un rapporto dialettico con l’organizzazione economica e di mestiere dei lavoratori.
Si tratta quindi di una fase indubbiamente ricca di conquiste, con l’emergere di figure fondamentali per la storia socialista, ma anche con una battuta d’arresto che è data dalla cosiddetta crisi di fine secolo.
- Periodo dall’inizio del ‘900 fino alla vigilia della Prima guerra mondiale. Sono cioè gli anni compresi tra il 1901 e il 1914, meglio conosciuti come età giolittiana.
Il fatto che tutta un’epoca prenda il nome da un personaggio politico, già di per sé è indicativo della rilevanza di tale personaggio nella storia del suo paese.
Ma a proposito di Giovanni Giolitti – più volte Presidente del Consiglio ed esponente dei settori più liberali della Sinistra storica – a noi qui interessa specialmente il particolare rapporto che seppe creare con il Partito socialista. E soprattutto con la sua componente riformista e con il suo principale rappresentante, Filippo Turati.
- Il terzo periodo che prenderemo in esame è quello della Prima guerra mondiale, gli anni compresi tra il 1914 e il 1918.
In una fase indubbiamente difficile e drammatica per tutto il paese, il Partito socialista si trovò allora a confronto con un particolare dilemma: da un lato, la volontà di rimanere fedele agli ideali pacifisti e internazionalisti sui cui esso si fondava. Dall’altro, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto e soprattutto per Filippo Turati, si pose la necessità di trovare comunque il modo di esprimere il proprio amor di patria.
- L’ultimo periodo è quello convulso e agitato dal primo dopoguerra all’avvento del fascismo.
Un periodo che vide una forte mobilitazione del partito, sia sul piano politico che sindacale, a fronte di una serie di scissioni interne e della difficoltà di contrastare i tanti pericoli che emergevano nei settori della destra estrema:
dal mito della vittoria mutilata, al crescente antiparlamentarismo, al consolidarsi del movimento di Benito Mussolini, fino alla nascita del Partito fascista, alla sua andata al governo col concorso dei settori più conservatori del paese, e infine alla capillare persecuzione dell’antifascismo e al definitivo scioglimento dei partiti democratici.
1892-1900
Se dunque passiamo ad analizzare la prima fase, dobbiamo subito cercare di capire in quale contesto si collocava il Congresso fondativo di Genova. E innanzitutto, va subito chiarito che quella italiana è una vicenda completamente inserita nel contesto europeo: con la nascita della Seconda internazionale nel 1889, la parola d’ordine era quella di creare una rete di partiti che accettassero il metodo legalitario e parlamentare della lotta politica, fermo restando il principio della lotta di classe.
Il modello di riferimento era e rimase la tedesca SPD, ma da parte italiana non mancarono mai i contatti e il dialogo soprattutto con i belgi e anche con i laburisti britannici.
Se quindi il Partito nasceva su questi presupposti, quale era invece la realtà italiana in cui si inseriva, quali i protagonisti della sua nascita, quali gli uomini che ne costituirono i primi simpatizzanti (ma tante furono anche le donne), e poi gli iscritti, gli elettori?
Il Congresso di Genova fu di fatto il punto di approdo di un progressivo delinearsi di nuclei orientati verso il socialismo, che soprattutto nella parte centro-settentrionale del paese erano già attivi da diversi anni, con caratteristiche e forme molteplici ed eterogenee. In altre parole, si trattava di una pluralità di Società, Leghe di resistenza e Circoli già diffusi nelle diverse comunità locali. E in tale ambito, tutto particolare fu indubbiamente il caso della Toscana.
Proprio alla nascita del socialismo toscano, alla partecipazione dei toscani al Congresso di Genova, e poi alla creazione e allo sviluppo della loro Federazione regionale, ho dedicato un volume. A Genova furono presenti ben 20 società toscane, di cui 12 confermarono l’adesione alla fine del Congresso. L’area rappresentata inizialmente era quella di Firenze Pisa e della Valdelsa senese. Ma ben presto il nucleo si estese a tutta la regione. Ad animarlo erano a seconda dei casi esponenti degli ambienti universitari, o di quelli commerciali e artigiani, o della categoria dei ferrovieri, tutti destinati a formare il primo gruppo dirigente del PSI nella regione.
Nell’arco di pochi mesi – in Toscana come in gran parte d’Italia – si venne strutturando una organizzazione che spesso era strettamente derivata da preesistenti nuclei democratici, a loro volta emanati dall’epopea risorgimentale. In questo senso il partito socialista si inseriva nella più nobile tradizione politica italiana.
Il nuovo partito riuscì a dare vita ad un intensa rete di cooperative, sindacati e associazioni varie, intorno a cui ruotava il nuovo “universo socialista”. Si venne così formando la prima generazione di dirigenti e amministratori, che sulla base di un programma elettorale politico e amministrativo comune cominciarono a mandare propri rappresentanti in Parlamento, ad entrare nei Consigli comunali, e poi anche ad insediare Giunte rosse, e quindi in definitiva a favorire il processo di democratizzazione e di laicizzazione della società italiana.
Voglio in particolare soffermarmi sul caso di Pontassieve, dove già nel 1893 è segnalato un Circolo socialista con 50 iscritti. E dove soprattutto fu attivo un personaggio assai originale e interessante come il fabbro-poeta Eugenio Azzerboni, che con la sua opera di impegno politico e propaganda è indubbiamente tra i principali esponenti del primo socialismo toscano. Mi dispiace di non avere il tempo per soffermarmi di più, ma lasciatemi almeno ricordare il suo Inno degli elettori socialisti, il suo linguaggio popolare e accattivante, che ci fa capire l’importanza di una propaganda condotta nelle “bicchierate” con i compagni, nelle Feste del Primo maggio, in un continuo intersecarsi della divulgazione politica con le scadenze della vita quotidiana.
A fianco di questo partito che nasceva e viveva accanto al popolo, non mancava naturalmente una organizzazione che sul piano nazionale portava una grande novità, con gli iscritti, le Sezioni, un proprio Gruppo parlamentare, e dal 1896 con il proprio quotidiano, l’Avanti!.
Era nata così in Italia la prima moderna forma-partito, ben diversa dai raggruppamenti clientelari che fino ad allora avevano agito per lo più intorno alle candidature del notabile locale di turno.
Le rivendicazioni di cui il partito si faceva promotore erano quelle dell’allargamento del suffragio, di una maggiore perequazione fiscale, di una serie di leggi che garantissero i diritti delle classi popolari. Sulla base di questo programma si poneva quindi il problema di eventuali alleanze elettorali con i partiti democratici – repubblicani e radicali -, che pur schierati su posizioni borghesi condividevano gran parte delle aspirazioni socialiste.
E il tema dell’alleanza si pose drammaticamente durante e dopo la crisi di fine secolo. Di fronte ai moti popolari contro il dazio sul grano del maggio 1898, il governo fece prima sparare contro i manifestanti (il generale Bava Beccaris a Milano) e poi diffuse la teoria del complotto politico. Le componenti anti-governative, e in primo luogo i socialisti, furono cioè accusati di aver fomentato le rivolte con scopi insurrezionali.
Le leggi speciali, gli arresti, i processi dei Tribunali militari aprirono una fase critica, che si risolse appunto con le nuove alleanze tra socialisti e democratici nelle elezioni del ‘900, mentre le componenti liberali di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti si accingevano ad andare al governo.
1901-1914
Il disegno giolittiano di maggiori aperture democratiche si inseriva in un ben preciso disegno che voleva garantire lo sviluppo economico, e soprattutto industriale dell’Italia. Ma per ottenere un tale risultato, era necessario garantire anche la pace sociale, un aumento dei salari per incrementare i consumi, un insieme di leggi che rendessero più moderno il paese.
È su questo piano dunque che il disegno giolittiano poté temporaneamente intrecciarsi con quello di Turati: con la fiducia al governo Zanardelli-Giolitti del 1901 il PSI apriva una fase in cui l’obiettivo principale consisteva nella legislazione sociale. Ovvero in una serie di leggi – sulla previdenza, le pensioni, la tutela dei lavoratori, delle donne e in generale di tutte le classi popolari – che di fatto resero l’Italia di fine ‘800 più simile agli altri paesi europei.
In realtà, questa fase di collaborazione fu di breve durata, perché poi l’età giolittiana fu percorsa da continue agitazioni e tensioni, che videro il processo di industrializzazione trasformarsi nell’egemonia economica e anche politica dei grandi gruppi industriali del settore siderurgico, elettrico e di tutto il comparto dell’industria pesante.
Da parte sua, anche il Partito socialista otteneva grandi risultati, come la nascita della CGIL nel 1906, la crescita elettorale diffusa, il consolidamento della rete di società e cooperative in tutto il paese. Ma doveva anche confrontarsi con quella contrapposizione interna tra riformisti e rivoluzionari, che comunque rispondeva ad una caratteristica originaria di duplice anima raccolta in un solo partito.
Anche in questo caso sono costretta a sintetizzare e invece sarebbero tante le cose da dire: mi limito a ricordare che lo stesso Turati rifiutava l’appellativo di riformista (che gli appariva limitante rispetto al proprio impegno politico socialista), così come vorrei sottolineare l’abuso che oggi si fa di questo termine che invece è nato in un preciso contesto. E che implicava un dialogo costante con le componenti rivoluzionarie, a meno che queste non fossero orientate e falsate da elementi esterni, come nell’età giolittiana successe con gli anarco-sindacalisti.
Ma intanto le conquiste dell’età giolittiana trovarono un importante punto di approdo nel suffragio universale maschile che venne introdotto nel 1912; contestualmente, però, le nuove aspirazioni coloniali e la guerra di Libia avevano trasformata l’Italia giolittiana in un paese che puntava al riarmo e alla guerra. Mentre i rivoluzionari erano insediati alla Direzione del Psi, con Benito Mussolini alla direzione dell’Avanti! si apriva ormai una nuova fase della storia italiana: nel 1914 Giolitti lasciava il governo e nello stesso anno scoppiava la Prima guerra mondiale.
1914-1918
Di fronte alla guerra si ebbe il crollo della Seconda internazionale: i partiti socialisti di tutti i paesi europei abiurarono le proprie convinzioni antimilitariste e si strinsero ciascuno intorno alle scelte dei propri governi. I soli a restare fedeli al pacifismo socialista furono gli italiani, prima e dopo l’entrata dell’Italia il 24 maggio del 1915.
In particolare Filippo Turati fu fermo e tempestivo nell’indicare gli aspetti malefici del conflitto, sottolineando anche la portata destabilizzante della campagna nazionalista e interventista rispetto alla sovranità del Parlamento.
Il partito, guidato dalla sinistra, si collocò così in quella posizione del “né aderire né sabotare” che comunque rimane oggi particolarmente attuale, se si pensi alle aspirazioni pacifiste di larghi settori dell’opinione pubblica e all’impegno di unificazione dei popoli europei. E questo pacifismo rimase netto e coerente in personaggi di estrazione riformista del calibro di Giacomo Matteotti, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani: i nazionalisti li bollarono come i “marchesi di Caporetto”.
Diversa e sofferta fu la posizione di Turati, come dimostrò appunto col suo discorso all’indomani della sconfitta italiana di Caporetto. In lui rimaneva cioè l’esigenza di evitare che il Partito socialista si ponesse in una posizione nettamente estranea a quella della nazione, della patria. E a questo atteggiamento concorrevano una serie di fattori, che andavano dai retaggi di una cultura politica di ascendenza risorgimentale, ai timori di lasciare il campo libero alle forze antidemocratiche e nazionaliste. Infine, queste posizioni differenziate dimostrano l’importanza e l’articolazione interna di tutte le componenti e dei singoli esponenti del partito.
1919-1926
L’Italia uscì vittoriosa dalla guerra, ma subito emersero le insoddisfazioni nei confronti dei Trattati di pace. Nel clima infuocato del dopoguerra, le nuove agitazioni nazionaliste legate al mito della vittoria mutilata favorirono le imprese dannunziane, le ideologie antidemocratiche, la nascita del movimento fascista di Mussolini, espulso nel ’14 dal Psi per le sue posizioni interventiste.
Il Partito socialista italiano era sua volta attraversato da fermenti rivoluzionari nuovi, anche per l’estendersi del mito della rivoluzione bolscevica in Russia del 1917.
Ancora una volta affronto un tema che è particolarmente difficile sintetizzare, dati i tanti elementi che andrebbero presi in considerazioni. Mi limerò quindi a sottolineare alcuni aspetti centrali: i primi anni del dopoguerra avevano visto una grande crescita del partito, un suo maggior radicamento capillare nel paese, e grazie a questo si ottennero conquiste fondamentali, dal limite delle otto ore per la giornata lavorativa alla conquista di tanti Comuni e all’elezione di tanti rappresentanti parlamentari.
Ma ormai le differenze interne si erano decisamente accentuate: dopo la scissione comunista del 1921 ne intervenne una nuova nel 1922, con la nascita del Partito socialista unitario guidato da Giacomo Matteotti e che raccolse l’ala riformista. Del resto, tutte le altre componenti politiche vivevano una fase di estrema difficoltà e di incapacità a comprendere e indirizzare la realtà sociale e politica del paese. Giovanni Giolitti tornato al governo registrò un fallimento, e infine nell’ottobre 1922 Mussolini venne nominato Presidente del Consiglio.
Tra il ’22 e il ‘26 si registrò dunque il passaggio verso la nuova dittatura, mentre le squadre fasciste infierivano contro l’organizzazione socialista e contro i suoi esponenti, fino al punto estremo dell’uccisione di Giacomo Matteotti dopo le elezioni del 1924.
In quegli anni l’aula parlamentare diventò per i deputati socialisti soprattutto la sede per sforzarsi a denunciare le aggressioni che avvenivano in ogni parte d’Italia. Fu però uno sforzo destinato all’insuccesso, come poi quello profuso nella vicenda dell’Aventino, dopo l’uccisione di Matteotti, quando i partiti antifascisti abbandonarono in parte il Parlamento e tentarono una nuova forma di opposizione a Mussolini.
Costretti in gran parte a lasciare il paese, i dirigenti socialisti ricostituirono subito il partito in Francia, e nel 1930 Pietro Nenni e Giuseppe Saragat riunirono i due tronconi nati dalla scissione del 1922.
La tradizione e la storia del Partito socialista italiano venivano così preservate, per tornare a rivivere all’indomani della caduta del fascismo.
Donatella Cherubini